giovedì 11 novembre 2010
USA E GETTA, storie di giovani lavoratori (1)
Vivere in un paese che non ti vuole.
La sensazione che molti giovani hanno dell’Italia è più o meno questa.
“Per quanto ti sbatterai ci sarà sempre qualcuno che ti fregherà il posto, se poi un lavoro te lo daranno, dovrai farlo con il massimo sforzo e il minimo risultato in termini di ritorno economico”, Mattia frequenta l’ultimo anno in Bocconi, gli mancano una manciata di esami e poi la tesi, la vuole fare sulla vertenza nello stabilimento FIAT di Pomigliano e sull’ipotesi di un nuovo contratto del settore auto.
“Poi mi ammazzerò per trovare un posticino in stage da qualche parte, se mi va bene, altrimenti si vedrà, mio padre non può mantenermi a vita”.
Ti vogliono qualificato e flessibile, così flessibile che tra poco perderai pure la tua forma umana e assumerai semplicemente quella di zerbino. Semplice e utile.
Ho cominciato dalla storia di Mattia che spera di trovare il lavoro della sua vita per raccontare la storia di S. (che mi chiede di non fare il suo nome e di non specificare dove lavora perché rischia grane se viene fuori che parla con me) che il lavoro lo ha trovato ma che sta male lo stesso.
Una storia che deve ancora cominciare e una che è già cominciata.
S fa un lavoro per il quale la città di Milano dovrebbe esserle grata.
Ovviamente non è così, anzi S. non sa quanto ancora resisterà prima di diventare matta.
Fa la maestra d’Asilo Nido, un lavoro per il quale ha studiato e per il quale ci si è laureata.
“Scienze dell’educazione, a fine mese quando arriva la busta paga di 840 euro per di più decurtata della quota sociale alla cooperativa mi viene da mollare tutto e mi sento pure una cretina ad aver perso tempo a studiare, mia sorella col diploma da ragioniera porta a casa 1400 euro, ha la 14° e tutti i dannatissimi diritti”.
Razionalizzare, esternalizzare, appaltare.
Questo genere di concetti sono diventati comuni in ogni angolo d’Italia, ma sono nati qui, a Milano.
Rendere l’amministrazione più leggera, questo è il fine ultimo delle giunte della “capitale economica d’Italia”.
Si appalta di tutto, anche perché quando lo si fa si possono sempre apportare delle piccole modifiche al servizio e la gente nemmeno si accorge.
Il sociale si è appaltato quasi per intero, si sono appaltati i servizi per il disagio, poi i servizi per gli adulti, le case di riposo e gli Asili Nido, tutto per migliorare il servizio e far “contente” le famiglie…
La torta degli asili nido è ghiottissima, perché è anche il modo per molte cooperative sociali con mire espansionistiche di entrare nella città e ingraziarsi i vari assessori e tecnici, …e poi costa poco.
Anche perché l’unica cosa che interessa davvero al comune, al di là delle stupidate sul miglioramento dei servizi, è risparmiare soldi sulla pelle dei cittadini.
Si comincia riducendo i costi legati agli stipendi: una lavoratrice comunale prende circa 1100 euro al mese e può arrivare fino a 1300, una lavoratrice di cooperativa 800 euro, chi se ne frega, tanto è una donna e avrà sicuramente un marito imprenditore che la mantiene, pensa il comune.
Qualcosa però bisogna aumentarlo, prima che qualcuno si accorga della fregatura… infatti si aumenta il Rapporto Numerico, se una educatrice “comunale” lavora con un massimo di 6 bambini a testa, nei nidi convenzionati si lavora con un numero di 8 per educatrice.
S. fa l’educatrice in una sezione di cui è anche l’unica lavoratrice, come se la cava?
“I bambini li devo cambiare quasi in batteria” ci dice: “via uno sotto l’altro, loro la prendono come un gioco, io un po’ meno soprattutto quando qualcuno è un po’ agitato”.
E se ci sono degli imprevisti?
“Se devo cambiare un bambino li porto tutti in bagno sperando che non ci si faccia male, non ti dico cosa succede se qualcuno riesce ad aprire la porta e scappa nel corridoio, devo chiamare in fretta l’ausiliaria sperando che non abbia altro da fare e corrergli dietro”
Ma quale tipo di lavoro educativo fai, domando: “Così, pensare di fare un lavoro di tipo educativo è difficile, si può dire che i bambini vengono guardati e nutriti, è assistenza non educazione”.
È rischioso? Si lo è, soprattutto per l’educatrice, perché se sbagli la colpa è solo tua, prima ti licenziano e poi ti lasciano da sola con il processo per negligenza che ti becchi sicuramente.
La cooperativa ne esce pulita perché i rapporti educativi sono “formalmente rispettati”.
Il rapporto 2010 sulle donne e il lavoro dell’ISTAT presentato ieri mattina (10/11/2010) dice che il 76% del lavoro familiare ricade sulle donne, asimmetria che è data dal fatto che una volta finito il lavoro la donna si trova con un altro lavoro a casa.
Per contro se si osserva la lista dei lavori classificati usuranti, ci sono pochissime professioni dove l’impiego femminile è preponderante: secondo la nostra legislatura (che raccoglie la definizione dell’OMS)
Sono considerati lavori particolarmente usuranti quelli per il cui svolgimento è richiesto un impegno psicofisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee.
Un’educatrice di asilo nido lavora 6 ore più straordinari, deve fare moltissimo lavoro anche a casa (non retribuito ma essenziale per la continuità pedagogica), con un numero variabile di 8/10 bambini di età 0 – 3 anni, li deve cambiare, deve giocare con loro deve accudirli (“impiego psicofisico particolarmente intenso”…).
I bambini piangono strillano e non sono controllabili: “Quando torno a casa il mio ragazzo e i miei mi dicono di non urlare, in realtà non me ne accorgo più, inoltre spesso quando c’è troppo silenzio intorno a me sento le urla dei bambini ancora nelle orecchie”
La tensione nervosa spesso è impressionante, alcuni bambini si mettono in situazioni pericolose in pochi secondi: “Ci sono notti in cui mi sveglio e urlo ‘prendi il bambino’ o cose del genere, mi sogno che un bimbo cada da un balcone o che picchi la testa contro uno spigolo, è tremendo” (…”e continuativo”…).
Guardando contemporaneamente 8 bambini spesso qualcosa sfugge: “qualche tempo fa mentre prendevo in braccio un bambino che aveva riempito i pannolino, un altro si è tirato addosso una seggiolina di legno del tavolo, per fortuna a parte la paura non si è fatto nulla, ma comunque non avrei potuto fare ugualmente niente a meno di non lanciare per terra l’altro bambino” (…”condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee”)
Ovviamente un lavoro di questo tipo porta con se una serie di malattie professionali quali:
patologie agli arti e alla colonna vertebrale, una educatrice di nido procede a una media di 25/30 cambi al giorno e non tutte hanno il fisico di un camionista bergamasco, a questo si deve aggiungere il sollevamento dei bambini per altre decine di altri motivi.
Patologie legate all’apparato uditivo, si registra un calo significativo delle competenze uditive dopo i primi 5 anni di lavoro, una donna che fa questo lavoro per 35 anni rischia la sordità!
Patologie nervose: sono moltissimi i casi riscontrati di patologie invalidanti a carico del sistema nervoso.
Vivere in un ambiente altamente rumoroso e imprevedibile con una serie di possibili eventi che potrebbero accadere senza che tu ne abbia alcun controllo è terribile.
Ma ovviamente sono donne che lavorano, a chi volete che importi.
Magari domani S. non potrà più lavorare, sarà giudicata inabile al lavoro e non avrà diritto nemmeno a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità per danni arrecati dalla sua professione.
È sui giovani lavoratori, soprattutto sulle donne, che lo stato sta costruendo il proprio futuro, quanto si dovrà attendere per avere anche la considerazione dei diritti?
(per la stesura di questo articolo mi sono avvalso della consulenza di Carmela Lucaselli che ringrazio sentitamente)
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